Domande frequenti
- Daniela Raffa
- 13 ago 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 17 ott 2022
Spesso mi vengono poste delle domande inerenti la Professione di Psicologo/ Psicoterapeuta, eccone un paio tra le più frequenti, seguite da risposte che non hanno pretesa di essere esaustive, ma possono apportare un pò di chiarezza.
“ Dottoressa, le è mai capitato di non essere di aiuto a un paziente perchè troppo coinvolta nella relazione ?” Mi ha chiesto qualche giorno fa una conoscente.
“Perchè io e lei non possiamo diventare amiche?” Mi ha chiesto in questi anni qualche paziente.
Per rispondere in maniera chiara a queste domande è necessario fornire alcune informazioni che potrebbero sembrare scontate, ma in realtà non lo sono per nulla.
L’Articolo 28 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani vieta espressamente di effettuare Interventi Diagnostici, di Sostegno Psicologico o di Psicoterapia con pazienti con i quali si intrattengono o si sono intrattenute relazioni significative di natura personale.
Vorrei soffermarmi, in particolare, sul rapporto terapeuta- paziente: conoscere le principali caratteristiche di cui esso dovrebbe essere dotato può aiutare a comprendere meglio le motivazioni sottostanti al veto di cui sopra.
La relazione terapeuta- paziente dovrebbe, innanzitutto, essere nuova e, come tale non inficiata da conoscenze pregresse e reciproci pregiudizi (negativi o positivi) : ovviamente la presa in carico di parenti o amici farebbe venire meno questo fondamentale presupposto che spesso rappresenta la conditio sine qua non affinchè il paziente si senta totalmente libero di aprirsi. Inoltre, cosa forse ancora più rilevante, essa dovrebbe essere focalizzata sul paziente: sebbene il concetto di neutralità del terapeuta sia stato superato e, in alcuni casi, l’utilizzo della self disclousure possa rivelarsi funzionale, l’asimmetria nei ruoli resta un requisito fondamentale. In un rapporto di amicizia non ci si incentra (o almeno non a lungo termine) esclusivamente sulla vita di uno dei due amici, in terapia invece dovrebbe proprio essere così.
Infine (last but not least) in questo tipo di rapporto è fondamentale che il terapeuta mantenga una certa distanza (non nell’accezione di freddezza): egli è nella relazione, all’interno della quale porta, a qualche livello, i propri vissuti, ma il suo esserci è finalizzato a prendersi cura della sofferenza del paziente. L’empatia, in questo ambito, va intesa proprio come oscillazione tra la prossimità e il distacco.
“Lo Psicoterapeuta deve o non deve parlare di se stesso?” chiedono alcuni conoscenti e, in maniera più velata, anche alcuni pazienti.
Argomento spinoso, complesso e direi anche annoso. Sperando nel perdono di Luca Goldoni, secondo il quale questa risposta molti di noi la scriverebbero anche sulla carta d’identità, dico “Dipende”. L’autorivelazione (self disclousure) deliberata a seconda dei casi può essere inappropriata o appropriata
Essa è inappropriata o non eticamente orientata quando comporta un’inversione di ruoli: è il terapeuta a dover supportare il paziente e non viceversa, per cui non sarebbe consono che il primo caricasse il secondo anche delle sue sofferenze.
L’autorivelazione può, invece, essere appropriata o eticamente orientata quando è utilizzata intenzionalmente al fine di promuovere il benessere del paziente: condividere alcuni elementi della propria storia personale simili a quelli della storia del paziente può rafforzare l’alleanza terapeutica purchè si sia in grado di gestire le dinamiche correlate a questa scelta, legata a vari fattori (personalità, approccio utilizzato, etc.).
Non sempre è facile tracciare una netta linea di demarcazione: in particolare, la pandemia ha determinato alcune modifiche del setting anche al riguardo (Per chi volesse approfondire: “La Psicoterapia in epoca pandemica:riflessioni sulle modifiche del setting”
e
Codice Deontologico degli Psicologi Italiani )
Daniela Raffa
(Psicologa- Psicoterapeuta)
Comments